SEZIONE CULTURALE

Vi sottoponiamo qui di seguito, con malcelato orgoglio, un ampio stralcio del prezioso manoscritto tornato alla luce
durante i recenti scavi in una località - tenuta segreta - all'interno dello Stato della Chiesa.

Pare che la versione in latino classico di cui disponiamo, ossia Chicchiocarus, de Colonna Longobardorum (et non solum)
sia in effetti la traduzione dell'originale in greco attico Kικκιοκαρ, Aναβασισ τισ Kολωννα Lομβαρντiασ.

Per facilitare la comprensione del testo anche ai pochi che non conoscono perfettamente le lingue classiche
ci limitiamo a pubblicare la traduzione in italiano, sempre curata da Chicchiocar. Buona lettura.


Capitolo I

I Compromessi sposi: annunciazione, annunciazione!

Era l’alba dell’ottavo giorno di primavera dell’anno 1 post novum sidecarforum natum quando una voce tonante risuonò per tutto lo Stivale: “Sidecaristi d’Italia, è giunta l’ora delle decisioni irrevocabili: si compia la scorta d’onore alla nubenda pulzella Silviatuoto1!”.
La voce era quella di frate Sean, appena destatosi dalle letargiche (o liturgiche? forse lisergiche?) meditazioni invernali nella fredda cella del Santuario di Polsi.
Ancora giovane e gagliardo, di notevole stazza e di modi spicci e sinceri, il frate aveva condotto in gioventù una vita sfrenata tra donne, alcool e fumo. La madre (sollecita della salute dell’anziano marito), le sorelle (riguardose della salute dei rispettivi fidanzati), le cognate (con il benestare disinteressato dei mariti, nonché fratelli di Sean) e la moglie (che godeva del privilegio dello ius primae operis) lo coprivano quotidianamente di richieste di lavori piccoli e grandi che il buon Sean, memore degli insegnamenti ricevuti, si acconciava di compiere lavorando financo a tarda notte o addirittura rinunciando a dormire pur di rispettare l’impegno preso e assumendo dosi massicce di nicotina attraverso interi pacchetti di nazionali senza filtro pur di resistere al sonno. Ma, come si sa, quando la stanchezza chiude gli occhi e rende i movimenti incontrollati, non sempre ad una ferrea volontà corrisponde una presenza di spirito adeguata. E così alcool denaturato, cerotti e garze erano all’ordine del giorno per curare lividi, bozzi ed escoriazioni varie che avevano ridotto il buon Sean alla stregua di un san Sebastiano.
Bacco, tabacco e Venere non l’avevano certo ridotto in cenere ma in compenso avevano fiaccato lo spirito di sacrificio e di abnegazione verso i propri doveri familiari e azzerato la pazienza dell’uomo, costringendolo a imboccare la strada della libertà. Una mattina, con la scusa di andare a comprare dei chiodi, si era allontanato dalla sua amata tribù e aveva diretto la prua della moto in direzione dell’Irlanda alla ricerca del quadrifoglio. Dopo anni di vagabondaggio, nei quali invece della desiderata piantina aveva provato quanto sa di sale lo scender e il salir per l'altrui scale (questa m'è venuta bene!), era ritornato presso la sua gente ma con l’intesa che nei tre mesi invernali avrebbe svernato da eremita nel Santuario di Polsi a riflettere sulla caducità dei desideri terreni: per tutti era dunque frate Sean nonostante, come confermato dalla moglie alle amiche, non avesse fatto voto di castità.
Dunque il nostro sedicente frate (part-time) levò la propria voce verso nord dalla cima del Montalto calabro affinchè la Parola, rimbalzando di versante in versante, si moltiplicasse in mille rivoli sonori e come un fiume in piena travolgesse ogni cosa lungo il suo percorso. Tra genti attonite e bestie spaventate la Parola giunse alfine alle orecchie della Colonna Lombarda (c) [ndr: l’Autore informa di aver pagato le previste royalties per l’uso del nome] mentre era tutta intenta a realizzare il moto perpetuo utilizzando un sidecar Ural.



Capitolo II

Armiamoci e partite

Il Nuovo Capo E.D. emerse dal laborioso travaglio di tubi, dadi e bulloni e sollevando in segno di comando la chiave del 27, con la punta del naso baciata dal solito schizzo d’olio, impartì perentoriamente l’ordine: “Corriamo, corriamo o giovani schiere, chiome al vento per tutti, sul nostro ferro e sul fuoco del nostro motore, con l’Ural e la pulzella nel cuor. Lunga è la via, stretta è la foglia, a chi non mi segue gli tolgo la voglia”.
Nuovo Capo, ellenico di nascita, non aveva mai capito perché la foglia dovesse essere stretta [l’Autore qui ha segnalato che in verità non l’aveva mai capito neanche lui], ma siccome era sempre il finale della favola che la vecchia nonna gli raccontava da bambino, pensò che in fondo al discorso tenuto ai suoi ci stava bene. Sempre perché ellenico non aveva mai capito perché bisognasse togliere la voglia a chi si impartiva un comando perentorio, ma siccome l’aveva più volte ascoltato da persone diverse che si rivolgevano minacciose verso un’altra persona pensò che in fondo all’appello ci stava bene: bastone e carota, gli aveva sempre insegnato il vecchio nonno mentre gli faceva vedere come si addestrava un asino.
Venuto in Italia, per mantenere il contatto con gli amati nonni terminava ogni discorso di una certa importanza con quella frase alla quale, secondo il suo senso estetico, la rima baciata avrebbe dovuto ricordare all’interlocutore che aveva a che fare non con uno qualsiasi ma con un conoscitore della poesia pascoliana [l’Autore qui ha inserito un emoticon con faccina che fa linguaccia].
Ordunque, come novello Senofonte che riporta gli sbandati Greci in patria dalla lontana Persia, sentì su di sé tutto il peso del richiamo di frate Sean e tanta fu la partecipazione nel fare quell’arringa che senza indugio si scoprirono i sidecar, si levarono i biker e i nostri cavalieri furon tutti risorti dal tedio invernale e la colonna fu tosto pronta al periglioso viaggio verso terre sconosciute.
All’improvviso il rombo dei motori fu superato da una voce: “Duce, qui ci vuole una guida!”.



Capitolo III

Lunga vita ai consiglieri!

La voce era quella di un tal pollozen da Bergamo Soprana.
Dovete dunque sapere che Bergamo Soprana rappresenta il limite invalicabile ed invalicato delle nebbie che affliggono Bergamo Sottana. Tale circostanza aveva dato spazio ad una convinzione di cui andavano fieri i Soprani e invidiosi i Sottani: la lucidità dei ragionamenti degli abitanti di Bergamo Soprana. E pollozen non faceva eccezione dando ad ogni occasione prove evidenti di una tale capacità.
Così era stato anni addietro quando, giovane di buone speranze, aveva elaborato con lucidità e razionalità il proprio progetto di un futuro da libero docente: una scuola peripatetica per rinverdire i fasti di quella fondata da Aristotele. Non aveva perso tempo il giovane pollozen: contattò centinaia di genitori per convincerli ad iscrivere i loro figli che così avrebbero assunto il nome di “peripatetici”, promosse riunioni con personaggi politici locali affinchè appoggiassero il progetto di creare una gioventù “peripatetica”, divulgò materiale informativo che vagheggiava come ipotetica sede della scuola una location molto raffinata e trendy, comprò pubblicità su radio locali dove le voci suadenti e ammaliatrici di speaker professioniste invitavano i giovani bergamaschi ad avvicinarsi alla didattica “peripatetica”, affisse manifesti di giovani ragazzi e giovani ragazze in atteggiamenti da futura classe dirigente bergamasca … fino a che una sera, nel pieno della bagarre promozionale, il nostro eroe si era visto piombare in casa la “buoncostume”, rappresentata per di più da due ispettori originari della Bergamo Sottana! Le accuse erano infamanti: riapertura di “casa chiusa” e istigazione alla prostituzione.
A nulla erano valse le spiegazioni di pollozen sulla storia della scuola fondata da Aristotele, sulle opere e sul pensiero dei grandi maestri, come Teofrasto e Stratone, che camminando e discutendo insegnavano le scienze, sull’influenza che il pensiero “peripatetico” ebbe sulla cultura islamica e sulla rinascita culturale europea dopo il Medioevo. Nulla da fare e non appena si sparse la notizia che si stava indagando su di lui, i genitori gli chiusero le porte di casa e gli sponsor gli girarono le spalle: pollozen era stato abbandonato da tutti, perfino dai Soprani che vedevano in pericolo la reputazione delle loro figliole da marito. Come un tempo Bruno Pontecorvo, fu costretto a fuggire in Unione Sovietica dove visse per molti anni come attaché diplomatico, ma di chi fu sempre un mistero. Tornato in Italia si era dedicato al più banale insegnamento nelle scuole pubbliche di diciotto ore settimanali seduto dietro la cattedra con voti, registri, note, compiti in classe e giudizio finale: per non cadere in depressione si era fatto il sidecar ed aveva aderito alla colonna lombarda.
“Duce – argomentò pollozen – ci aspetta un cammino periglioso in terre sconosciute. Se Cristo fu costretto a fermarsi ad Eboli, vuoi che noi non ci si perda appena attraversata la linea gotica? Ordunque, ci occorre una guida fidata, quindi lombarda, e con grande esperienza di viaggi al sud. Io so di un tale di nome pietro che ha tutte queste caratteristiche e che dimora in quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno tra due catene non interrotte di monti laddove, a seconda dello sporgere e del rientrare di seni e golfi, viene quasi a un tratto a restringersi e a prendere forma di fiume”.
“Lecco?” domandò il duce come a voler stringere sul nome.
“Lecco” fu la risposta.
“E Lecco sia!” urlò come un sol uomo la colonna lombarda.
I motori rombarono e lentamente la colonna lombarda si mise in marcia in direzione del Resegone.



Capitolo IV

Un gesto eroico

Un cielo splendente e le ovazioni popolari lungo le strade lombarde accompagnarono il trionfale incedere della colonna lombarda.
Ormai a tramonto inoltrato la colonna arrivò in quel di Beverate dove la statale 342, dopo un breve tratto verso nord, piega decisamente ad oriente verso l’Adda. Proprio in quel punto sorge una rotonda di grandi dimensioni. Il duce fermò la colonna con l’imperiosa alzata della solita mano sinistra (facendo così spegnere il motore del Dnepr): sulla rotonda, tra gli sguardi incuriositi e perplessi degli automobilisti, un’Ural girava senza imboccare nessuna delle uscite.
Il duce aspettò ancora per maggior sicurezza, poi si convinse che qualcosa non andava: qualcuno stava forse tentando il moto perpetuo? Chiamò a sé un certo spock per fermare l’imprudente ed impudente biker.
Era spock per la sua altezza il vessillifero della colonna lombarda, il faro nelle nebbie bergamasche (di sotto) e il punto di riferimento per non perdersi durante le periodiche visite all’EICMA a caccia di qualche hostess. Aveva poco più un mese di vita che la madre aveva dovuto regalare la culla ed il corredo che con tanto amore aveva preparato per lui durante la gravidanza: quel piccolo esserino era cresciuto tanto in lunghezza da rendere culla e corredino inservibili.
La povera donna aveva peregrinato di negozio in negozio, il padre era arrivato a proporre alla Chicco una “fuori serie”. Tutto inutile, sembrava non esserci soluzione: non avrebbero mai goduto le gioie parentali delle passeggiate con la carrozzina e l’orgoglio di mostrare agli amici il frutto del loro amore.
Ma a tutto c’è soluzione. Il padre recuperò (non disse mai come, ma qualche capello bianco in più raccontava meglio di tante parole) una vecchia gondola tipo werhmacht da un sidecar della polizia stradale, l’adattò sul telaio della carrozzina rinforzando ruote, molle e tubolari, improvvisò una capote utilizzando due ventagli parafuoco da camino e telone impermeabile da camion. La madre, riadattando tutti gli addobbi ed i ninnoli della vecchia culla, ingentilì il nuovo mezzo, tanto che durante le loro lunghe passeggiate ad ogni incontro ai complimenti per il neonato si sommavano quelli per la sorprendente carrozzina. Fu così che in spock nacque l’amore per il sidecar.
Non era facile fermare quell’Ural che girava impazzita, ma il bravo spock (che oltre alle orecchie aveva aguzza anche la mente) prima ancora che il duce formulasse un piano attraversò di corsa la rotonda, si piazzò sul marciapiede dell’aiuola interna, attese il passaggio del sidecar, lo affiancò con quattro falcate, salì con un balzo sulla sella posteriore e tolse con gesto deciso la chiave d’accensione. Il motore borbottò, il sidecar sobbalzò ma dopo pochi metri si fermò.
Mentre intorno si vedevano gli automobilisti bloccati dallo spettacolo che in segno di plauso agitavano il pugno o mostravano l’indice e il mignolo della mano (ma, stranamente, non il pollice), il duce e spock cercarono di scrollare l’ignoto biker irrigidito nella posizione di guida con le mani artigliate sul manubrio.
Con gesto deciso spock gli tolse il casco e la fissità dello sguardo non lasciò dubbi sull’unica cosa da fare: un sonoro ceffone volò e l’uomo si risvegliò dicendo: “Mi son de Vicenza e me ciamo arvicora”.

(continua)